Napoleone e il suo lascito, tra mito e realtà

UN BONAPARTE INEDITO

Napoleone e il suo lascito, tra mito e realtà

 

Napoleone nel suo Memoriale scrisse:

«L’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune….Tale unione dovrà divenire un giorno o l’altro per forza d’eventi. Il primo impulso è stato dato, e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la Lega dei Popoli».

Napoleone aveva certamente avviato il processo che portò alla costruzione dell’Europa delle nazioni, processo che si delineò durante il XIX secolo, ma che conteneva, almeno per come si produsse, i germi distruttivi manifestatisi nel XX secolo, con le due guerre mondiali, in cui l’Europa mostrò il lato debole della propria costruzione, su cui non aveva confluito abbastanza quella spinta universalista del XVIII secolo, alla quale Napoleone con le sue gesta volle richiamarsi.
Ma davvero Napoleone, una volta in esilio a Sant’Elena, non ebbe un “piano B”? Davvero accettò passivamente la propria fine? Sempre a Sant’Elena scrisse che si aspettava un aiuto concreto dalla sua Isola, la Corsica. Si dichiarò convinto che qualcosa si sarebbe mosso, e secondo gli storici più accreditati questa affermazione è da considerarsi priva di reale fondamento. Ci fu, è vero, nel 1816, in Corsica «un’estrema fiammata bonapartista, che sembrò dare per un momento ragione a Napoleone a Sant’Elena. Nel 1816 si scatenò una guerra condotta dal generale Poli nel Fiumorbo: essa mostrava che la pacificazione in Corsica era più un desiderio che una realtà. Sapendo di essere ricercato come bonapartista ed essendosi impadronito dei tesori che Gioacchino Murat gli aveva lasciato in deposito, Poli si era ritirato nel villaggio natale di Sari». Il Poli poi si arrese di fatto agli inglesi.


Napoleone inedito2Napoleone e il suo lascito, tra mito e realtà


Lo storico Fabrizio Dal Passo, riprendendo la tradizione storiografica più accreditata afferma che «l’Imperatore ha cominciato a vivere nella leggenda solo dopo la morte: forse Napoleone si illudeva seriamente a Sant’Elena, quando affermava che in Corsica, appoggiato ai suoi compatrioti, non avrebbe mai temuto l’abbandono della lotta».
Ancora lo storico Dal Passo sottolinea che «la storiografia italiana, specie nel ventennio fascista, tendeva a sottolineare la connessione tra la Rivoluzione Corsa ed il Risorgimento, scadendo spesso in una retorica di regime, pur fornendo degli spunti notevolmente interessanti sulle conseguenze tra storia corsa e storia italiana».
Il personaggio bonapartista della mia tesi tende a smentire questa ipotesi. Egli si chiamava Padre Gioacchino Prosperi (1795-1873). È considerato, non a torto, il predicatore della Corsica. Predicò infatti nell’Isola, pressoché ininterrottamente, dal 1839 al 1846 (per taluni 1848).
La sua famiglia aristocratica lucchese ebbe durante il Principato baciocchiano e nel periodo in cui regnò in Lucca Carlo Ludovico di Borbone serrati legami con la famiglia Bonaparte.
In Corsica il religioso fece ogni cosa fuorché predicare nel senso classico del termine; o quanto meno il resoconto delle sue fatiche missionarie, trattate nella pubblicazione La Corsica ed i miei viaggi in quell’Isola edita presso la Tipografia Fabiani di Bastia nel 1844 non fa alcun cenno alle sue predicazioni religiose. Egli viceversa si rivolge a tutti quegli Isolani, vicini agli ambienti bonapartisti, che lo ospitarono con abnegazione ed inneggia ad un patriottismo italico con un’impronta rosminiana, che non esclude la Corsica come possibile parte di un “Santo Regno italiano”. Le vicende del prete rivoluzionario, che non amava certo definirsi come volevano descriverlo le malelingue un “prete di Montanelli”, perché giustamente non lo era, le ho ampiamente trattate. Gli anni in cui operò padre Prosperi sono immediatamente successivi all’epoca napoleonica e ai fatti del Fiumorbo fecero parte del suo retroterra politico. L’agente murattiano Giuseppe Binda, che padre Prosperi necessariamente conobbe, il quale sostenne a lungo Gioacchino Murat, dopo la caduta napoleonica, nel tentativo di costituire un Regno italiano indipendente, rappresentò per il Nostro un modello da seguire, un inno ad un passato rivoluzionario che voleva rispondere alle ragioni del presente, e non ad un ritorno tout court ai valori dell’antico regime.
Probabilmente Napoleone Bonaparte non si sbagliava. Ecco le parole di padre Prosperi in un documento del 1846:

«I Corsi non sognano e dimenticano che il Regale ciuffo fu intimo amico del Paoli e che i padri Muratori sono stati i testimoni degli ultimi gemiti dell’Aquila Imperiale».

Qualcuno non aveva dimenticato l’Imperatore, in Italia e fuori d’Italia, soprattutto nella sua natia Corsica. Quali i rapporti di Napoleone Bonaparte con la religione, nei suoi ultimi anni? Una sinergia nel primo risorgimento tra i cattolici liberali, i mazziniani meno accesi e i napoleonidi superstiti?
Rilascerò alcune considerazioni tratte dai dialoghi su Dio e Gesù, tra l’Imperatore ed il generale Bertrand, quest’ultimo ateo dichiarato.
Affermava Napoleone, un Napoleone inedito:

«Quanto è sublime il Vangelo! Tutto proclama l’esistenza di Dio, ciò è indubbio. Da quando presi il potere, mi proposi di ristabilire la religione. Ai miei occhi la religione è la base e il fondamento della morale, dei principi, dei buoni costumi».

Tutto può apparire scontato, anche perché Napoleone Bonaparte vedeva avvicinarsi la fine del suo viaggio terreno durante il suo esilio a Sant’Elena.
L’uomo non deve dare nulla per scontato, soprattutto riguardo agli ultimi istanti di vita.. Il generale Bertrand testimoniò che egli, il generale , divenne devoto. Non dimentichiamo nemmeno la visita alla Madonna del Monte, all’Isola d’Elba, nel 1814, di Napoleone insieme alla sua amante storica, Maria Walewska.
Ciò spiegherebbe ulteriormente il richiamo giobertiano e di tutti i cattolici liberali, anche rosminiani, come Padre Gioacchino Prosperi, al Bonaparte, nei primi decenni del XIX secolo; ed i legami dei napoleonidi con alcuni ambienti Vaticani durante il primo Risorgimento. Un mazzinianesimo, il loro, che richiamava i principi rivoluzionari repubblicani, confluiti nel Codice Napoleonico, ed allo stesso tempo un richiamo allo spirito universalistico, inclusivo del mondo protestante ed ebraico nelle questioni nazionali italiane. Una visione questa più totalizzante rispetto a quella che si produsse con l’Unità nazionale nel 1861. Per l’occasione i cattolici furono esclusi di fatto dalla vita politica nazionale, e ciò per lungo tempo. Sono vicende che attendono ancora di venir rielaborate organicamente su di un piano storiografico.
Proviamo perciò ad azzardare un’ipotesi sul “piano B” di Napoleone Bonaparte, ormai esule a Sant’Elena. La madre dell’ex Imperatore francese, Letizia Ramolino, viveva in quel periodo a Roma, dove morirà nel 1836. Qui ricevette spesso, tra le altre, visite di Lord Holland, l’aristocratico whig inglese, protettore dell’ex agente murattiano di origini lucchesi Giuseppe Binda, che a Holland House in quegli anni era il bibliotecario ufficiale. Binda, stando alla descrizione fatta nelle sue memorie da John Whishaw, amico di Lord Holland e importante membro del partito whig, era in quel primo periodo dell’esilio a Sant’Elena dell’Imperatore, molto amato a Londra e pareva che ivi sarebbe rimasto a lungo. Ma improvvisamente Binda, nel 1817, si trasferirà a New York, senza che l’amico John Whishaw riesca ad indicarne con certezza le motivazioni. Rimane infatti assai vago, direi troppo vago, il celebre avvocato inglese. nel dare una qualche spiegazione sull’accaduto. Lui era un procacciatore d’affari per Giuseppe Binda, e quindi conosceva nel midollo l’arguto ex agente murattiano. Negli Stati Uniti in quel periodo viveva anche Giuseppe Bonaparte, il fratello maggiore dell’Imperatore, e sono in molti ad indicare in lui la persona a cui Napoleone pensava come possibile mediatore nelle sue questioni personali. Mi sono sempre chiesta perché Binda riuscì a sposare, lui che non era nessuno, la figlia del potentissimo generale Sumter, cosa che gli permise, ma ciò in seguito, di divenire Console statunitense a Livorno. Quello che è certo è che Binda rappresentò per i patrioti del Primo Risorgimento italiano un punto di riferimento essenziale, tanto che lo stesso Binda offrì la sua villa lucchese, in sua assenza, nel 1831, a celebri ricercati mazziniani.
Anche ai Bonaparte mazziniani fuggiaschi, che a più riprese transitarono nel minuscolo Staterello lucchese proprio in quegli anni? È probabile, poiché venne intercettato dalla polizia ducale lucchese (che ufficialmente agiva secondo i canoni viennesi) il Gherardi Angiolini che altri non che il nipote del cavalier Luigi Angiolini, amico fraterno di Giuseppe Bonaparte; il tutto nella villa del Binda a Segromigno in monte di Lucca Giuseppe Binda diverrà, una volta Console americano a Livorno, ne 1840, amico personale e collaboratore di Alexander Walewski, il figlio naturale di Napoleone I, e di Maria Walewska.
I patrioti Risorgimentali italiani provenienti dai luoghi lucchesi di elezione dello stesso Binda saranno in grande sintonia, a lungo, con i generali corsi Franceschetti e Poli, entrambi accesi bonapartisti. Tra loro un nome fra tutti: l’avvocato Carlo Massei, mazziniano, la cui madre era una Burlamacchi, di tradizioni sia repubblicane che riforma te. Possiamo andare a verificare che John Whishaw fu a lungo in corrispondenza negli anni 1817-1818 con Benjamin Constant. Il giurista francese, nemico in origine del Bonapart, col rientro di Napoleone I dall’Isola d’Elba, quindi prima della disfatta finale, era entrato nelle grazie dell’Imperatore francese, che gli aveva proposto di redigere una carta costituzionale.
Queste particolari citazioni pongono in evidenza possibili legami e spiegazioni sull’ardire del Bonaparte esiliato a Sant’Elena, nel sentirsi capace di lasciare l’Isola.
Le ipotesi di costruzione di un sottomarino da parte di Robert Fulton, che consentisse all’ex Imperatore di fuggire dal luogo della sua prigionia; i denari offerti allo stesso Fulton da Letizia Ramolino. L’ impresa abortì sul nascere, ma ciò confermerebbe una qualche possibile intesa tra gli ambienti whig al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico e i Bonaparte stessi. Non possiamo ad ogni modo negarlo. I fatti avranno esito ben diverso rispetto alle mire Imperiali, ma resta interessante riflettere su possibili scenari del tutto inconsueti della Prima Restaurazione. Di più. Nonostante la morte del Bonaparte e la celebre Ode manzoniana che ne immortalò definitivamente le gesta, furono in molti ed a lungo a credere che l’uomo deceduto a Sant’Elena non fosse il Bonaparte. Si moltiplicarono leggende di ogni tipo, ed anche storici accreditati d’impronta bonapartista come Diego Angeli, nobile fiorentino di origini lucchesi, amico del critico d’arte fiorentino, l’aristocratico Diego Martelli, anch’egli bonapartista per estrazione come tutta la sua famiglia che a lungo collaborò proprio col Bonaparte, ne furono coinvolti. Angeli scrisse che un personaggio misterioso il giorno della morte dell’Imperatore si era presentato a casa di Letizia Ramolino in Roma,per poi misteriosamente sparire, ed in molti ne ravvisarono il Bonaparte stesso. Frasi che non hanno nulla di storico in senso stretto ma che bene riflettono l’idea del momento storico e del peso politico dell’ex Imperatore francese. Si volle cioè sottolineare che il nostro Risorgimento, vivo o morto che fosse il Bonaparte, era guidato dal suo spirito.
Ma solo il nostro Risorgimento? Direi l’intera primavera dei popoli del 1848. Quanto gli inglesi dovettero misurarsi seriamente con la figura e lo spirito del Bonaparte negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo? Quanto i whig inglesi dovettero sempre in quel periodo al mito del Grande Corso?
Molto, direi; probabilmente non sarebbero riusciti a prendere il potere sconfiggendo i conservatori, senza la “presenza attiva” dei bonapartisti. Anche in questo caso poco si è scritto sul piano storiografico.

Elena Pierotti
Articolo già apparso su Storico.org

Fonti
Fabrizio Dal Passo, Il Mediterraneo dei Lumi, Roma, CNR 2006.
A.S.di Lucca, Legato Cerù, fasc. 18, riconducibile a padre Gioacchino Prosperi, documento del 1846.

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